Oggi, noi di Universo Fantasy abbiamo il piacere di presentarvi una particolarissima intervista/dossier rilasciataci da Fabrizio Corselli, che ha tenuto una conferenza presso il Day Zero di Etna Comics 2020 in data 23 dicembre, sotto la nostra ala. Il tema era “Quando l’Immaginario incontra la Letteratura”.
All’interno del suo intervento, coadiuvato dalla nostra Camilla Fontana, Fabrizio Corselli ha introdotto alcuni elementi della nuova Poetica di sua creazione, in anteprima. Una Poetica dell’Immaginario, la cui didattica trova posto oggi all’interno del saggio “L’eredità dei Draghi – Poetica e Immaginario Fantasy”, a cura di Brè Edizioni.
Partendo dai contenuti dell’intervento e dalla lettura del saggio, abbiamo avuto modo di approfondire quest’affascinante mondo che coniuga Poesia e Fantasy. Come un novello Tolkien, il nostro “Cantore di Draghi” ha creato, o meglio sub-creato, un’intera poetica a sostegno del suo immaginario sui draghi ma anche, allo stesso tempo, un genere produttivo, componibile.
Per chi ancora non conoscesse Fabrizio Corselli, ricordiamo che è possibile leggere a questo link una precedente intervista e a questo link la recensione di una delle sue opere.
Veniamo a noi. Da dove nasce l’idea di questa poetica così affascinante e qual è la sua idea principale?
L’idea è molto chiara. Il tutto è legato a una guerra, in particolar modo alla Guerra del Dyamar. Dopo che l’intervento di Nuvarrak, l’araldo dei draghi d’argento, ebbe sortito l’insperato successo nel riunire le due fazioni in guerra, la razza degli elfi e quella dei draghi iniziarono a lavorare insieme di comune accordo. Le perdite furono fin troppe e inaccettabili. Il Concilio dei Draghi fu così convocato tempestivamente e gli ambasciatori dei diversi popoli elfici invitati a prendervi parte, sedendo accanto ai maggiori esponenti delle caste draconiche. Per prima cosa, l’unità d’intenti fu avviata verso l’uniformazione del linguaggio; non un semplice linguaggio, bensì un unico codice che fosse condiviso dagli elfi e dai draghi, quale principale simbolo di eterna alleanza, e così fu. Il Tefrast, il linguaggio figurato dei draghi venne fuso con l’Eleamar, dando vita al Teframar (o Elimar, in elfico): un codice di eccezionale flessibilità e potere, soprattutto dopo che la sua versatilità si dimostrò sorprendentemente utile nell’impiego della magia, dando successivamente vita alla Sfera dei Draghi.
Nemmeno a dire che i più grandi artisti e le maggiori caste elfiche lavorarono di comune accordo per creare qualcosa di fantastico, un’Arte che racchiudesse in sé l’essenza delle due razze. La Poesia fu scelta come arte eletta, ma in essa confluirono diverse concettualità ereditate da altre arti come la danza dei Drakarin, il “Valacun”, l’arte della doma dei Valimar oppure l’Elinar, “l’arte del movimento delle dita” degli Arcieri Elivar.
Com’è cominciato il tutto?
Tutto quanto è cominciato con la pubblicazione del primo poema fantasy dal titolo “Drak’kast – Storie di Draghi”, a cura di Edizioni della Sera, nel 2011. Al suo interno è contenuta un’appendice di poche pagine che getta le basi per una poetica completa e interdipendente con il background dell’opera, come se essa stessa fosse stata creata dai personaggi di quella storia, come se fosse stata partorita da quella cultura, parliamo comunque sempre di finzione letteraria. Da questo punto di vista, “Drak’kast” è il primo prototipo di “Canto dei Draghi”.
Il poema narra la storia di un Incantatore di Draghi. Dopo l’unificazione del linguaggio Teframar, fu anzitempo redatto un Editto speciale: da quel momento in poi, fu vietato uccidere una qualsiasi creatura draconica, soprattutto perché, in virtù della memoria collettiva dei Draghi, sarebbe andato perso un sapere di inestimabile valore. Per tale motivo fu necessario potenziare l’incanto della parola per domare e temperare l’indole di un Drago.
Poi cosa è successo?
Da lì, in poi, ho studiato molto la sua struttura, ho espanso il background, soprattutto ho cominciato a creare le fonti, sempre a livello di sub-creazione; quindi, ho attinto agli Àrinas nanici (canti di guerra) e ai Valor elfici (canti eroici). Cito per esempio il Syndarral, nel quale sono contenute molte nozioni sulla didattica della poetica base e sulle varianti applicate, così come il Canto del Fuoco: breve poemetto scritto interamente secondo la tecnica del Kar’drak. Peraltro, una didattica che impiego nei miei laboratori di Poesia e di Narrazione orale. Gli elfi insegnano.
Dopo un po’, ho finalmente compilato il saggio che racchiude tutte le regole e i principi estetici di questa poetica.
Se non ricordo male, nel saggio si parla dell’aspetto grafico di questa poetica, o sbaglio? Cioè, il “Canto dei Draghi” è talmente particolare da influenzare anche il modo di scriverla a livello visivo.
Sì, non sbagli. Partendo sempre dal principio che il Kar’drak impiega la figura del drago come unità mensurale, anche il verso segue, di contro, questo aspetto, non solo a livello formale ma anche a livello di implicazioni emotive. L’intera struttura poetica riprende e modula l’irrequietezza e l’agitazione che contraddistinguono la figura draconica. Il verso è materia viva e, in rapporto all’Ethos e al Pathos, cioè al modo di esprimere un’emozione o un sentimento, la lunghezza dei versi varia in base al tipo di “indole” espressa, in un continuo alternarsi di spine dorsali (nyr) e creste (lyr). Questo processo dinamico di alternanza grafemica dei versi prende il nome di Nyrrin; e da qui, poi tutta una serie di evoluzioni stilistiche sulle diverse combinazioni euritmiche.
A proposito di ritmo. Nel “Canto dei Draghi” è molto forte la presenza della musicalità e dell’armonia, con una particolare attenzione per la danza. Una condizione abbastanza atipica, soprattutto parlando di Draghi: figure per eccellenza del Caos o, comunque, esseri poco legati a quella bellezza e armonia che invece possono essere ascritte a una figura elfica. Dico bene?
Apparentemente distanti, ma più vicini e profondi di quanto si possa credere. Con l’uniformazione del linguaggio, quello elfico e quello draconico, gli elfi stessi hanno deciso di apportare una solenne trasformazione alla struttura poetica, cercando di temperare oltremisura l’asprezza e la durezza dei fonemi e delle sillabe draconiche (kam); in sostanza, hanno cercato di ricostruire una mancata armonia partendo dal Caos quale base originaria.
Inoltre, sempre all’interno della razza elfica, molte sono state le caste ad aver dato un significativo contributo allo sviluppo della teoresi del Kar’drak; prima di tutti i Drakarin, “coloro che danzano per i draghi”, i quali hanno forgiato un parallelo semiotico fra la parola e il movimento del corpo: le parole, come per l’arte tersicorea, si tengono per mano, danzano insieme nel raggiungere una piena unità ritmica. Il discorso sarebbe troppo lungo, e il capitolo sulla ritmica è il più ampio di tutti. È la base del Kar’drak.
Qualche altra informazione potresti darcela, vero? Trovo molto affascinante questa cooperazione di caste e razze verso un’unità d’intenti in rapporto all’ambito artistico. Pochi sono gli scrittori che si focalizzano sull’Arte come base per i propri scritti.
Oltre all’apporto dei Drakarin, distintivo quanto significativo è quello operato dai Valimar, “i Domatori di draghi”. Questa casta ha applicato il processo di doma (Valacun) alla struttura strofica del Kar’drak nella diretta visione di un modo ben preciso per temperare l’inquietudine del verso, per domarlo. Ciò ha dato vita a quella che viene chiamata “Equilibratura della tensione euritmica del verso”. Per non parlare degli “Arcieri Elivar” e del loro insolito modo di utilizzare la corda dell’arco quale mirabile strumento musicale (Elinar).
Come dicevo prima, creare una siffatta poetica mi ha dato tantissimi stimoli, perché non mi sono limitato a un processo meramente tecnico, non mi sono perso nella “matematica” dei versi, ma ho creato, di pari passo, un cosmo più ampio, ho fatto della mitopoiesi la base per produrre qualcosa di più grande che conciliasse due dimensioni, che creasse un luogo sicuro dove potessero convivere due mondi insieme. All’interno, vi è lo spessore di un’ambientazione.
Le regole e i principi estetici del Canto dei Draghi: hai riunito tutti questi elementi in un unico Saggio, che tu definisci “didattico”. Vuoi parlarcene?
Durante la fase di creazione e sviluppo è stato necessario riunire tutte quante le idee in un corpus ben definito, in modo da evolvere la regolamentazione con ordine; soprattutto quando si ha a che fare con una situazione che prevede lo sviluppo non solo di una struttura tecnica, ma anche di ambientazione. Durante la stesura, molte erano le idee riguardo agli elfi e alle loro implicazioni, non ci si limitava soltanto a costruire una nota stilistica o uno strumento versificatorio, ma ci si sforzava di ampliare lo sguardo di una razza nei confronti di quella data problematica, spesso di tipo estetico. Quindi: come si pone un elfo innanzi al problema di armonizzare il linguaggio draconico, fatto di fonemi e sillabe così scabre? Oppure, come esprimere al meglio lo stato di perenne agitazione che caratterizza un drago, come ricreare il suo carattere all’interno di un testo? E la concettualità del suo soffio come la si incorpora, a livello fonosimbolico e concettuale, lungo le strofe? Per non parlare dello studio dei due sensi che hanno caratterizzato la poetica: il Sirràk, “l’udito acuto” e il Njennen, “la vista acuta”, nel diretto senso di “dilatazione epica”: il verso si dilata e si contrae al pari di un’iride. Anche la struttura versificatoria del “Corpus Draconis”, ossia della strofa, sviluppa il rapporto fra le parti corporee del Ventriglio e del Fondamento, di vitale importanza per poter generare la temibile arma del Soffio (Blis), quindi come imbrigliare questa “energheia” e farla snervare lungo tutto l’asse strofico in modo coerente e stilisticamente connesso.
Alla fine, il saggio è molto corposo, e tratta tutti gli elementi di composizione del Kar’drak.
A proposito dei sensi e dei principi estetici. Nel saggio accenni a una situazione di amplificazione dei concetti, o meglio, di situazioni scaturite da altre situazioni, di strutture binarie che generano altre strutture o evenienze, seppur minori.
Sì. Non è niente di così difficile o particolarmente sorprendente. È più una questione di progettazione. Per esempio, all’interno del Kamarral (verso dracofono) è normale che, poi, scaturiscano una serie di accorgimenti stilistici come il Kamarrin, ossia il contenimento della forza espressiva del verso, o che all’interno del contesto fonosimbolico nasca il Kamàluen, cioè lo stile allitterativo, per il quale, in base al tipo di drago, varia anche l’uso dei fonemi e il tema portante. Così come, per ciò che riguarda un Drago di Fuoco, si userà uno specifico set di sillabe o fonemi in qualità di unità ritmiche come la S+ o la F+, quasi a richiamare il crepitio delle fiamme, per non parlare dell’Innuarin dei Draghi della Luna, in cui la velatura e il cosiddetto “soffuso” dell’emanazione lunare vengono ricreati ad hoc. Un po’ come succede per la musica descrittiva.
Quindi, devo pensare che tu abbia creato appositamente una serie di nuove razze draconiche, o sbaglio?
Non sbagli. I Draghi provengono già dal background del Drak’kast, alcuni nuovi, altri che rimodulano gli archetipi esistenti. Degni di nota sono gli “Astuiri”, i draghi elfici, i “Nubaràl”, i draghi di corallo, o meglio dell’Acqua, così come gli “Erodek”, i Draghi Berserker e, non ultimi, i “Kohomoth”, i Draghi di Fuoco: loro sono i miei preferiti, soprattutto perché legati a un elemento che adoro e che, a livello di implicazioni stilistiche, danno tantissimo. Cito per esempio, l’Endrimar, detto anche “Tristico fuoco” che presenta una costruzione formale del verso ben definita. Alla fine è davvero bello giocare con l’immaginario per creare una Letteratura fantastica. Ricordo che il Kar’drak è una poetica componibile, fisica, esistente.
Per ciò che riguarda i Draghi minori, abbiamo: il “Cercatempesta”, il “Fiamma Rapida”, il “Furia Ardente”, lo “Scuoti Ombre”, l’Argento Vivo”, l’Iride Alata” e tanti altri. Questi hanno dato vita a generi minori come il “Gridnork”, il “Canto di Guerra” nanico.
Qual è la parte, sia concettuale sia tecnica, che più ami in questo tipo di poetica, o di cui vai fiero, a livello di creazione?
Fammi pensare. Per ciò che riguarda la parte tecnica, di sicuro la strutturazione del periodo ritmico, dell’unità base che è la strofa (karad; “organo”): essa sintetizza, a livello grafemico, tutto ciò che riguarda il corpo del drago, dal primo kar (“parte”, verso) all’ultimo. I due ultimi versi riprendono la forma bifida della coda: è in questa sezione che il Cantore concentra tutta la forza espressiva del verso, la degna conclusione del soffio (Sèlemar) che proviene dalla sezione precedente (il “Fondamento” cede la sua quantità di sangue mistico al “Ventriglio”).
Dal punto di vista concettuale, di sicuro la costruzione dell’Innue, della “memoria elfica”, in qualità di preparazione dinamica all’improvvisazione del verso e alla sua connessione al Fyrtral, il “Tracciafiamme” o anche “Cavalcafiamme”; qui si richiama la poesia norrena, nello specifico ci si riferisce all’höfudstafr in campo allitterativo.
Hai usato qualche metrica particolare, rime o cosa?
Il Kar’drak esalta la componente primitiva e primordiale della figura draconica; situazione, questa, che si ripercuote sul verso, o meglio ne trova una diretta corresponsione in termini concettuali.
Al metrico ho preferito l’euritmico: un approccio che permette una più ampia libertà compositiva, soprattutto ritmica, armonica, giocando con le parole e le unità minime di articolazione fonica come se fossero delle note (Kàmal). Prova a concepire la strofa come un accordo musicale. C’è un perché colui che compone la “Poesia dei Draghi” prende il nome di Cantore. Ricordo che il Kar’drak proviene dalla poesia orale e subisce gli influssi della dimensione improvvisativa.
In sostanza, i Draghi hanno fornito il materiale su cui lavorare, il metallo da plasmare. Gli elfi e i nani, di contro, hanno operato come abili fabbri, temperandolo, eliminando le impurità, rimuovendo il superfluo, hanno applicato a quella massa apparentemente inerte il proprio sapere. Non per ultimo, sono ricorsi alle tecniche di forgiatura dei nani, eccelsi fabbri, al loro concetto di cadenza.
Gli elfi più che mai hanno cercato di donare solennità e potenza all’Elimar (linguaggio unificato). Le tecniche di correzione stilistica sono tutte quante atte a ristabilire l’equilibrio all’interno del caos del mondo dei draghi. Se non fosse stato per loro, il Kar’drak sarebbe stato semplicemente un coacervo di suoni gutturali e sintassi non giustapponibili. Il saggio introduce il lettore all’Epica delle due razze, con continui rimandi alle fonti antiche, agli esempi in essi enunciati e così via.
Hai accennato ai nani e alla loro perizia. All’interno del saggio, nel capitolo “Didattica razziale” si parla del concetto di “battito”, di “tamburo”. Vuoi parlarcene?
È il concetto dell’Urdram, della battitura del martello sull’incudine. Per quanto gli elfi siano eccelsi creatori e devoti all’Arte, quando si parla di metallo e forge, i nani sono insuperabili; anche gli “orecchie a punta” si devono arrendere. Ti cito un pezzo: “Il testo è un’enorme incudine, mentre la parola ne rappresenta il metallo vigoroso su cui modellare la propria creatività, la propria ispirazione. Il fabbro ne è consapevole, e per questo ha personalizzato il proprio stile di battitura al pari di un poeta che opera le proprie scelte stilistiche di linguaggio e repertorio retorico. Un Adinamar legato alla lega di “envion” (lega del fuoco), presenta una battitura più vigorosa con una cadenza che richiama la flessuosità di una fiamma, mentre un altro caratterizzato dalla lega di “dralyk” risulta essere più frenetico con la propensione a creare suoni più stridenti. Nel tempo queste caratteristiche sono diventate veri e propri canoni per un Cantore di Draghi”.
Da qui, si passa poi all’Èmeral, ossia “l’Indole”, che definisce la cadenza, il ritmo dei versi in rapporto al carattere (sintattico) e al modo di esprimere un’emozione o un sentimento.
Tutte le sperimentazioni e gli espedienti stilistici sui quali hanno lavorato gli elfi sono stati necessari per rendere compatibile la fase espressiva con la nuova struttura. Lo spazio è minore, i versi sono contratti e non permettono una composizione standard. Per esempio, all’interno di un verso non è insolito trovare soltanto un verbo o un verbo e una congiunzione; questa situazione prende il nome di Nèvarrin. Il verso del Kar’drak si sviluppa più attraverso i sintagmi che per frasi intere: un singulto, un guaito, un impercettibile spasmo.
Ho visto che ci sono tantissimi nomi “fantasy”, passami il termine, all’interno di questa poetica, e adesso ne hai nominati altri. Scusa il mio profondo interesse, ma essendo un’amante di Tolkien mi viene naturale chiedertelo: come sono nati questi nomi, fanno parte di un linguaggio o cosa?
Allora. Intanto fughiamo ogni indugio. Io non sono un filologo o un esperto di Linguistica, e in me non nasce una tale pretesa. Io mi occupo d Poetica e i miei sforzi si orientano verso tale dimensione. In ogni caso, i nomi sono ragionati e cercano di mostrare un minimo di coerenza, non sono buttati lì a caso come fanno in molti. In altri, invece ci sono delle derivazioni. Per esempio, prendiamo il termine Endùemar, ossia la tecnica che gli elfi hanno creato per esprimere una scena vivida, utilizzando in un modo del tutto particolare l’aggettivo quale indicatore tonale per una determinata emozione. La base è la stessa del personaggio mitico “Endimione” (dal greco “enduein”) e indica il chiarore della Luna.
Prendiamo l’esempio di sopra. Il “Nèvarrin” deriva da “Nivar” o “Nimbar” (“Portento”); quest’ultimo designa l’incanto della parola, o meglio la riduzione di una sequenza di parole a una singola parola di comando (un po’ come nel caso del “linguaggio laconico”). Gli elfi l’avevano sviluppata per attivare i loro incantesimi attraverso la declamazione di parti di poemi, la citazione doveva essere rapida. Chiaro?! Quando fronteggi un Drago minaccioso, non hai il tempo di “intrattenerlo”, mentre sta per sferrarti un colpo d’artiglio o di coda. I primi Incantatori di Draghi l’hanno ben imparato a loro spese.
Non ti sei fermato soltanto a questo. So che hai perfino creato una particolare forma di compendio alla declamazione dei versi, proprio a livello di arabeschi fisici, impiegando le mani e diverse forme espressive. All’interno del saggio c’è proprio un accattivante racconto di un Bardo che ne parla in modo specifico. Le hai prelevate da qualche arte o cosa?
Io mi occupo di narrazione orale a 360 gradi. In questo rientra anche il “Canto della Spada”, di cui sono tutor formativo: arte di narrazione orale con la spada, in cui la parte orale (epos) viene corrisposta al movimento dell’arma. Alcuni sistemi sinergici di narrazione mi sono noti.
Sono partito semplicemente dal “Valacun”, l’arte della doma dei Valimar elfici, per poi giungere così, in questo lavoro di sinergia stilistica, al “Valacuìrin”: una sequenza di movimenti delle mani e delle dita, anche in parte del busto, che questi domatori sono soliti usare in azione compartecipe con le parole: innanzi allo sguardo di un Drago essi risembrano una danza ipnotica. Ti svelerò un segreto. Il principio dell’uso delle mani e delle dita esisteva già ai tempi dei greci, con la Chironomia, in particolar modo a compendio dell’arte retorica. Per i greci si poteva danzare anche stando seduti.
La “Poesia dei Draghi” può essere realizzata in due modi: come normale Poetica scritta (Kar’drak), e come arte della narrazione orale (Valacuìrin). In quest’ultima vi sono delle varianti che non esistono in quella scritta. Il termine “Poesia”, mi sta proprio stretto.
Per concludere: progetti per il futuro?
Covid permettendo, ho pronti alcuni laboratori sul Kar’drak, nelle sue due forme (scritta e orale), soprattutto per le Scuole. Inoltre l’affiancherò anche al “Canto della Spada”. Spingerò molto questi progetti.
Grazie Fabrizio per la tua disponibilità.
Grazie a Voi!